lunedì 18 agosto 2014

QUANDO UN TRENO


Spagna, settembre 2006.
Un tramonto rosso si stagliava alle mie spalle in quella calda serata di metà settembre, tornavamo da una giornata di sole e di bagni in quel mare blu mediterraneo. Il treno sfrecciava veloce sulla costa regalando ai nostri occhi paesaggi incredibili tra le rocce e la distesa d'acqua, non mi accorsi neanche della foto che mi era stata fatta immerso nei miei pensieri.
La vacanza era ancora lunga da passare e avremmo visitato altri posti anche più belli, ma la mia mente vagava in mille pensieri. Ricordo che stavo facendo un bilancio della mia vita appoggiato al finestrino che mostrava spiagge, case, mare e cielo. Non so perché ma quando ci si immerge nei propri ricordi spesso si fanno i bilanci.
Rivedi la carrellata degli anni quasi in sequenza e spesso fermandoti nei momenti più tristi o difficili, poi ci sono i momenti divertenti e ti metti a sorridere da solo come un bambino sciocco... Eppure è così.
Non era un momento facile, avevamo preso la decisione di staccare da tutte le difficoltà che si erano presentate quell'anno e farci più di venti giorni in quel bellissimo Paese.
Davanti a me si stagliava una lunga spiaggia di una cittadina dal nome stano, piena ancora di bagnanti nonostante le ombre lunghe della sera ed il sole rosso che rasentava l'orizzonte e come un incanto rividi un bambino correre su una rena calda. Rivedevo i suoi piedi lasciare le impronte sulla riva, subito coperte da leggere onde biancastre e quell'odore di salmastro che inondava l'aria.
I capelli rossicci al vento gli cadevano sul visetto, mentre quel bambino si sedeva nell'acqua che gli lambiva il bacino e con le manine, schiacciava la spuma che arrivava con leggero fragore su di lui.
Davanti ai suoi occhi molte persone erano in acqua a nuotare, le vedeva correre a fatica tra le onde ridendo, le vedeva muovere il pedalò verso gli scogli mentre prendevano il sole chiacchierando, vedeva bambini più grandi urtarsi gridando a squarciagola cadendo in mare, immergendosi e rialzarsi più volte.
Poi quel bambino si alzò e vide la nonna da lontano fargli un cenno di avvicinarsi e lui corse verso la donna che teneva in mano un panino al cioccolato, lei dolcemente gli mise un asciugamano di spugna addosso e sorridendo lo vide azzannare con gusto quel dolce appena preparato da lei.
Il sole stava scomparendo, voltai il viso verso quel punto, dei gabbiani erano nel cielo e puntando lo sguardo in alto vidi la prima stella della sera ed allo stesso tempo rividi quel bambino, di sera sul terrazzo dopo cena mentre guardava le stelle luminose nel cielo e sotto di lui, la sala da ballo dell'Hotel da dove provenivano musiche da ballo ritmate e uomini e donne vestiti in modo colorato, si dimenavano a quei suoni orecchiabili, ma per lui le stelle erano più importanti da vedere ed appoggiato alla ringhiera col musino, osservava sopra la sua testa quella volta celeste immensa.
Una voce mi destò dai pensieri "Siamo arrivati, sognatore... Dai dobbiamo scendere..."
Appena entrati in stazione il treno ripartì verso nord ma ne ero sicuro, qualcun altro dentro i vagoni bianco rossi, in quel momento stava probabilmente sognando come me, un posto lontano, un mare, un cielo ed un bambino.
La città grande, luminosa e piena di profumi ci inghiottì e i pensieri si allontanarono in chissà quale angolo della mente per ritornare ancora una volta in un altro momento particolare.

martedì 12 agosto 2014

VITTORIA



VITTORIA ARRIGONI STELLA


Sant'Angelo Lodigiano, fine primavera 1912.
"Vittoria, dai una mano a Cecchina, porta in casa la biancheria asciutta sulla panca nell'orto." disse sua madre Martina a una delle tre figlie, mentre ritirava il bucato steso dietro casa. Vittoria prontamente aiutò la sorella più piccola che camminava a fatica con in braccio tutti quei panni.
In casa Monica, la sorella maggiore stava stirando i panni dei cinque fratelli maschi e del padre che stavano fuori in campagna a lavorare, la povertà di quegli anni e il sentore dell'imminente guerra si facevano sentire ma in quella cittadina di campagna a pochi chilometri da Milano sembrava tutto immerso nella quiete.
Vittoria era una bambina dagli occhi grigio-azzurri molto taciturna, meno legata alla religione di tutta la sua famiglia che ogni sera recitavano il rosario prima di andare a dormire; aveva fratelli e sorelle di una bontà assoluta come la bellissima madre Martina che quando cantava aveva la voce di un usignolo, mentre il padre Pietro, era autoritario e severo e pretendeva dai figli il "Voi" al posto del tu ed il "Messiè" (tratto dal francese Monsieur) al posto di papà o padre. 
Funzionava così allora, in quasi tutte le famiglie, ma tutti loro nonostante lavorassero nel pomeriggio fin dalla tenera età, sapevano leggere e scrivere e nonostante tutto erano arrivati alla quinta elementare, solo Angel Maria il fratello bellissimo che aveva girato il mondo conoscendo le lingue, tranne Cecchina (Francesca) ed Alessandro che erano ancora piccoli: otto anni lei e quattro lui, l'ultimo della nidiata.
Vittoria nel tempo libero, quando tutti nel pomeriggio dormivano nell'assolata stagione, sognava ad occhi aperti una vita diversa, dentro di se sentiva l'ambizione di riuscire a far qualcosa di importante. Voleva essere una donna che lavorava come poche facevano allora, indipendente e come tutte, dall'alto dei suoi dieci anni, sognava il suo principe azzurro, un principe diverso che la trattasse alla pari, sogni che a quei tempi erano impossibili da realizzare.
Eppure come le sorelle ed i fratelli, le giornate erano scandite da ordini e lavori: un giorno inginocchiata sulla riva del Lambro intenta ad insaponare una camicia bianca, cadde nel fiume, le altre donne urlavano e cercavano di tendere dei rami per far in modo che potesse trovare un appiglio, ma lei che non sapeva nuotare, cercava di avvicinarsi alla riva mentre sentiva la corrente portarla lontano. Fu salvata da un suo coetaneo che la riportò sana e salva a riva. Quando lui uscì dall'acqua lei si accorse che era poliomielitico, ma aveva una forza incredibile nelle braccia ed aveva uno sguardo azzurro intenso, a quel tempo non sapeva ancora, ma quel giovane un domani sarebbe diventato lo zio di sua figlia, perché lei sposerà il nipote di questi.
"Vittoria stira questo, Cecchina aiuta il papà a mettere le ciabatte, Monica guarda la polenta sul paiolo mentre io preparo la tavola. Sandrino guarda se nel cortile c'è Gerolamo (Gerumèn), Angel Maria e Cechèn (Francesco) e chiamali che è quasi pronto." disse  la loro madre mentre sistemata tutto per il pranzo.
Vittoria le veniva da ridere nel vedere a tavola mentre pranzavano, seduti a fianco Francesco chiamato Cechèn e sua sorella minore Francesca chiamata Cechìna, certo che papà e mamma non ebbero molta fantasia nel dare i nomi al figlio maggiore e la figlia più piccola, un po' le dava fastidio che venisse chiamata Vitòria con una "t" sola, ma allora si parlava il dialetto e l'italiano era un lusso che pochi potevano permetterselo nonostante la famiglia era di buone condizioni.
Eppure lei nel suo angolo privato, nel suo cuore e nella sua mente era felice... Felice quando era sola e poteva pensare a tutto ciò che voleva, quando non doveva lavorare od aiutare qualcuno in famiglia.
Era una bella famiglia anche esteticamente, tutti alti con occhi chiari i maschi (angel maria poteva fare l'attore a Hollywood) e loro le femmine bellissime con capelli di seta, Vittoria ricorda che un giorno Gerumèn (veniva chiamato così Gerolamo) per sbaglio nel giocare diede uno schiaffo a Monica e le fece male, lui scappò di casa per due giorni in preda ai rimorsi e al dolore di aver ferito la sua amata sorella, lo trovò Angel Maria, in un campo alla periferia, nascosto in un fienile, un campo chiamato "quél di Purèn", un soprannome del proprietario che non era certo uno di quelli che faceva fatica a lanciarti dietro una falce se ti trovava nelle sue proprietà. 
Angel Maria lo convinse a tornare e quando fu in casa si mise in ginocchio davanti a tutti a chiedere scusa di una cosa banale e stupida. Monica lo abbracciò forte. Cose da libro cuore certo, ma accadute veramente, dove a quei tempi regnava il vero bene incondizionato.
Che ingenuità, eppur vedendo quell'episodio, Vittoria si rese conto di essere una bambina strana, non sarebbe riuscita a dimostrare davanti a tutti quello che aveva fatto Monica, si sentiva più chiusa e taciturna, protagonista di un destino diverso, come davvero lo sarà in futuro.
Finita la guerra, con tre fratelli tornati dal fronte, la sorella Monica morta di "spagnola" la terribile malattia del dopo guerra che fece milioni di vittime, ne morirono tre a Sant'Angelo tutte giovani ragazze, il padre ammalato, lei e Cechina si diedero da fare col lavoro, la prima fini al cotonificio e l'altra imparò il commercio di stoffe.
Con gli anni i maschi e lei si sposarono ma tre di loro morirono giovani dopo la scomparsa del padre. Angelo Maria lasciò vedova Giuseppina con quattro figli, mia nonna lo rimase anche lei dopo poco perdendo oltre al marito anche due figli. 
Dwstini tragici ed uguali.
Ma appena finita la seconda guerra mondiale, le due donne unite da forza e coraggio imbattibili (zia Giuseppina fu la prima donna a prendere la patente e guidare un camion) senza mai dimenticare i loro mariti, si imboccarono le maniche e portarono le loro famiglie avanti senza mai perdersi d'animo. 
Rimasero in casa con la madre anziana, Alessandro e Cechina, e quando Sandrèn si sposò "a tarda età", Vittoria andò ad abitare con la madre Martina e la sorella, portandosi dietro le  due figlie rimastele, mi amadre e zia Domenica.
I decenni passarono, Vittoria lavorava a Milano vendendo stoffe, tornava alla sera stanca ma in casa loro ormai non mancava nulla, radio, televisione, si poteva mangiare dal primo alla frutta, mentre alcune famiglie non potevano ancora permetterselo. 
Quando andò in pensione pochi anni dopo, si ammalò di cuore e dovette mettersi completamente a riposo, però Vittoria ebbe la gioia di diventare nonna dalle figlie Angela e Domenica, di tre nipoti pestiferi: Giampaolo, Francesca ed Emilio, ma nei suoi occhi chiari, nonostante le avventure dure della sua vita, si potevano notare ancora i sogni, i sogni che l'hanno seguita fin da bambina e che raccontava a suo nipote Giampaolo, il maggiore che oltre agli stessi occhi era un sognatore come lei, quando tutte le sere le faceva compagnia mentre era nella sua camera.
Morì tranquillamente nel suo letto assistita dalle figlie e dalla sorella Cechina mentre invocava il nome di suo marito che stranamente era scomparso esattamente trent'anni prima nello stesso giorno e che mai aveva dimenticato, un amore grande e più forte del tempo. Forse da quel momento i suoi sogni si erano realizzati in un altro mondo.
Oggi avresti compiuto 112 anni e trovando una foto di quando eri giovane nell'album di famiglia, mi sono piombati nella mente il tuo ricordo ed i tuoi sogni, di quando me li raccontavi mentre ti facevo compagnia la sera nel tuo letto, dove stavi seduta con in spalla una liseuse di seta ricamata con dei fiori tenui e mi guardavi con quegli occhi intensi, di quel colore uguale al mio. 
Tanti auguri nonna Vittoria.

Giampaolo Daccò Dos Lerèn

giovedì 7 agosto 2014

Quando muore un sogno..


Com'è difficile descrivere sensazioni, storie, amori, avventure e tanto altro, specie se si vuole raccontare qualcosa che non è tua, che in un certo senso non ti appartiene ma che da sempre fa parte della tua vita. 
Da che parte uno può incominciare a narrare la vita di una persona sognatrice, di una persona dolce, di una persona che avrebbe voluto fare della sua vita una favola?
Dall'infanzia triste del dopo guerra, dove una piccola bambina vide morire in pochi anni il padre, la sorella maggiore, la nonna che viveva con loro e la povertà che quella tragedia di quei terribili anni aveva portato tra loro?
Si potrebbe dire forse, dei sacrifici di sua madre che invece di vivere nel dolore perenne, riuscì a trovare lavoro e mantenere la sua famiglia nascondendo nel suo cuore disperato e nella sua mente, fino alla fine l'amore per quel marito perso troppo presto?
Oppure che a soli 19 anni si ritrova presto incinta e sposata ad un uomo che amava solo se stesso e la bella vita, mentre lei passava dopo turni di lavoro in fabbrica (dando addio al sogno di diventare una brava stilista, aiutata negli studi dalla zia tanto amata nella grande metropoli), le sue serate con il suo bambino piccolissimo a casa della madre, quel bambino che non ricordava neanche che volto avesse suo papà?
Si sta entrando troppo nelle tragedie delle telenovelas? Ma la vita di tanti lo è, tanti hanno una tragica storia alle spalle che fa di ognuno di loro un essere diverso dall'altro, un essere che reagisce, si muove, parla in maniera diversa dagli altri simili.
Magari si potrebbe parlare di questa ragazza che sognava molto con i suoi due bambini, sempre sola in casa la sera, raccontando loro storie divertenti o serie del suo passato e di favole spesso inventate.
I suoi due bambini che la guardavano sempre e che con lei avevano un rapporto bellissimo, erano orgogliosi di quella bella mamma, dolce a volte severa nel caso ma mai un gesto duro nei loro confronti.
Poi gli anni passano e i bambini che non sono più bambini, incominciano a vedere le lacrime di lei, il suo dolore, quello che l'uomo sposato anni prima le faceva... I bambini che non erano più bambini,  le stavano vicino ma non era abbastanza, bastava un po' di amore diverso da quello figliare, finché un giorno si ritrovò sola.
Una separazione che doveva riscattarla, che doveva farle fare una nuova vita, che doveva renderle un po' di felicità e di riprendere ancora i sogni, invece divenne la sua prigione... I bambini che non erano più bambini e neanche più ragazzi, videro gli occhi di lei perdere luce, le sue parole perdere il senso, le sue gesta divennero incomprensibili sia per loro che per gli altri.
E lei perse ogni cosa, non capiva che questa volta era lei che dava un dolore diverso a chi l'amava, finché un giorno, un freddo giorno di fine autunno rimase sola con uno dei suoi bambini non più bambini e neanche più ragazzi. L'altra era volata in cielo come fanno tutti gli angeli che per caso scendono qui per fare un percorso breve e poi tornare da dove sono venuti.
La sua mente non volle crederci, per lei l'altra era andata via, a Roma, lontano per lavoro, per altre cose e sempre di più i suoi occhi verdi che una volta davano luce ai suoi bambini, divennero sempre più opachi ed oscuri fino a quando anche lei se ne andò, ma non nel posto da dove era venuta all'inizio di tutto, ma in un altro dove ci sono tante persone come lei, i cui sogni si sono persi in chissà quali meandri della mente o del'universo e così l'unico dei suoi dei suoi bambini diventati non più bambini e neanche più ragazzi, si ritrovò solo sperando che il mondo di lei, da dove non sarebbe più tornata, fosse almeno colorato e pieno di fantasia. Almeno si illuse e si illude ancora.
Il suo sogno forse è morto o forse ora vive in quel sogno e per lei sarebbe la cosa più giusta, più normale anche se terribile per chi non ha capito o avuto esperienza di viverle accanto.
Perché ho scritto questa triste storia? Perché non ho narrato un evento divertente o qualche avventura di gioventù oppure di fantasia? Su un blog o su facebook non si dovrebbero raccontare cose tristi, cose private, cose che toccano l'animo di molti, che potrebbero infastidire o commuovere in base ai sentimenti che una persona prova.
L'ho scritto perché a lei lo dovevo, perché oltre al suo anniversario di un "matrimonio" che ha avuto un senso solo per lei, tra poco sarà anche il suo compleanno, un compleanno che non festeggia già da troppi anni, anche perché sono l'unico che sa, che conosce e che ricorda e per me è impossibile non farlo e non narrarlo.
Auguri ovunque sia la tua mente, auguri anche se quando sono da te non mi vedi e non mi riconosci, auguri anche se non posso far nulla se non accarezzarti il viso mentre tu non te ne accorgi ma io sono sempre vicino anche quando sono lontano.
Auguri mamma.